VIDI ANELLUM

La leggenda narra che, molti secoli fa, in un’epoca di cavalieri e re, una bellissima e potente regina barbara attraversava con il suo corteo la rigogliosa Valle del Mercure, una valle nascosta tra le montagne del sud, ricca di vegetazione, acque limpide e misteriose sorgenti. La regina era in viaggio verso una terra lontana per consolidare alleanze, e il suo cuore era gravato dalle responsabilità del regno. Tuttavia, le meraviglie naturali della valle offrivano un temporaneo sollievo dalle fatiche della vita di corte. Dopo ore di cammino attraverso i sentieri fitti e ombrosi della valle, il caldo del giorno e la fatica del viaggio cominciarono a farsi sentire, tanto che la regina, sempre composta e regale, chiese una sosta per riposare e rinfrescarsi. I suoi occhi caddero su una sorgente dalle acque cristalline che sgorgava tra le rocce, formando un piccolo ruscello che scorreva dolcemente giù per la collina. L’acqua scintillava al sole come gemme preziose, e sembrava quasi invitare chiunque la osservasse ad avvicinarsi. Colpita dalla bellezza del luogo, la Regina scese dal suo cavallo, e con grazia si avvicinò al ruscello, desiderosa di dissetarsi e di rigenerarsi con quell’acqua pura e incontaminata. Prima di immergere le mani nelle fresche acque, la regina si tolse i pesanti gioielli che adornavano le sue dita, tra cui il suo prezioso anello nuziale, simbolo del suo legame con il re. L’anello era un capolavoro di oreficeria, una sottile fascia d’oro con incastonata una pietra preziosa che brillava come il sole. Era un dono che le era stato fatto dal suo amato consorte il giorno del loro matrimonio, e per lei non aveva solo un valore materiale, ma anche un immenso significato sentimentale. La Regina, seduta vicino alla riva, poggiò delicatamente l’anello su una roccia liscia accanto a sé, per evitare che scivolasse nell’acqua mentre si chinava a bere. Con delicatezza, immerse le mani nelle acque gelide e portò le mani colme di acqua limpida alle labbra. Il freddo della sorgente la rianimò immediatamente, e per un istante si perse nella serenità del luogo, dimenticando i doveri e le preoccupazioni della sua vita di corte. Ma fu proprio in quel momento di distrazione che accadde l’impensabile: un sasso rotolò giù da una roccia vicina e, rimbalzando vicino all’anello, lo fece scivolare nell’acqua. L’anello rotolò lentamente giù per il letto del ruscello, fino a sparire tra le correnti. Quando la regina si accorse dell’accaduto, un’ondata di panico le attraversò il cuore. L’anello, quel simbolo tanto caro del suo amore e del suo impegno verso il re, era sparito nelle profondità del ruscello. Con un grido di allarme, ordinò subito alle sue guardie di cercare ovunque, setacciando il fondale del ruscello e perquisendo ogni angolo della piccola sorgente. Le guardie, pur rispettando l’ordine, erano perplesse. La corrente, seppur lenta e calma, rendeva difficile vedere attraverso le profondità del ruscello, e il fondo era pieno di ciottoli, sassi e piante acquatiche. Ma nonostante le difficoltà, nessuno osò fermarsi. Il corteo si disperse lungo il corso d’acqua, cercando tra le rocce e il letto del torrente, nella speranza di ritrovare l’anello della regina. I minuti si trasformarono in ore, e mentre il sole scendeva lentamente all’orizzonte, le speranze cominciavano a svanire. La regina barbara, che normalmente manteneva un’aria di compostezza e controllo, iniziava a sentirsi sconfortata. L’anello sembrava ormai perduto per sempre. Ma proprio quando ogni speranza sembrava svanire, un giovane soldato, noto per il suo acuto spirito di osservazione, si avvicinò al centro del ruscello. Mentre le acque riflettevano gli ultimi bagliori del tramonto, il soldato notò qualcosa che luccicava tra i ciottoli sul fondo. Con un urlo di gioia, sollevò il braccio indicando il punto preciso dove aveva scorto il riflesso dorato. “Vidi anellum, mia Regina!” esclamò a gran voce. La regina, incredula e piena di speranza, si avvicinò velocemente, seguita dalle altre guardie. Il soldato si tuffò nelle acque, e con un abile movimento delle mani, riportò in superficie l’anello perduto. Con un respiro di sollievo, la regina accettò l’anello dalle mani del giovane soldato, lo osservò per un istante alla luce del tramonto e lo indossò di nuovo, sentendosi finalmente completa. La gioia per aver recuperato un oggetto così prezioso per il suo cuore fu così grande che decise di ricompensare l’intero corteo, ma soprattutto di onorare quel luogo per sempre. “Questo luogo”, disse con voce solenne, “non sarà mai dimenticato. E per ricordare il momento in cui abbiamo ritrovato ciò che sembrava perduto, d’ora in avanti sarà conosciuto come Vidianello, in onore del soldato che ha esclamato con gioia Vidi Anellum.” E così fu. Il piccolo ruscello e la sorgente, già noti per la loro bellezza, divennero presto leggendari grazie alla storia della regina Barbara e del suo anello ritrovato. Nel corso dei secoli, viaggiatori e pellegrini si fermarono lì per bere dalle acque che si diceva portassero fortuna e protezione a chi avesse perso qualcosa di prezioso, sperando che la magia della sorgente potesse aiutarli, proprio come aveva fatto con la regina.

La leggenda di Vidianello continua a vivere nella memoria degli abitanti della valle, un ricordo di speranza e perseveranza, tramandato di generazione in generazione, ogni volta che qualcuno si ferma a contemplare le limpide acque di quel luogo incantato.

LA VERGINE ARDENZA

La leggenda di Ardenza racconta una storia di purezza, sacrificio e un amore spirituale che si scontra con le forze terrene. Ardenza, una giovane vergine di bellezza incantevole, votata a Dio, era perseguitata dalla volontà del padre di darla in sposa a un crudele principe vicino. Per sfuggire a questo destino, decise di fuggire nella notte dal castello paterno, rifugiandosi nel folto di un bosco incantato. Ogni passo che la giovane compiva in quella natura selvaggia faceva fiorire gigli, simboli della sua purezza, di due tipi: gigli di fiamma e gigli di neve, rappresentazioni del suo fervore spirituale e della sua innocenza incontaminata. Questa via mistica fu poi chiamata Cammino dei Gigli. Ardenza visse per un tempo indefinito nel bosco, comunicando con Dio, i fiori e gli angeli, che la proteggevano e le facevano compagnia. La natura stessa sembrava assisterla, con un gruppo di api che ogni giorno le donava del miele puro e fragrante, simbolo della grazia divina che la nutriva. In questo ambiente sacro, Ardenza fiorì in santità, cantando e pregando con fervore, così da sembrare quasi parte della natura stessa. Nel frattempo, nel mondo esterno, si diffuse la credenza che la giovane fosse morta, e il suo nome fu pianto da tutti coloro che avevano sentito parlare della sua bellezza. Tuttavia, il principe, deciso a trovarla, organizzò una gigantesca battuta di caccia. Con un corteo di uomini, cavalli e cani, penetrò nel cuore della foresta, abbattendo ogni ostacolo davanti a sé. L’atmosfera del bosco, prima tranquilla, divenne un caos di suoni, con urla, trombe e corni che echeggiavano ovunque. Ardenza, terrorizzata da questa caccia spietata, cercò rifugio in una macchia di mirto, nascondendosi tra i suoi stessi lunghi capelli scuri, che le avvolgevano il corpo come un mantello. Tuttavia, uno dei cani, apparentemente posseduto da una forza maligna, fiutò la sua presenza e iniziò a ululare incessantemente, attirando il principe verso il nascondiglio della fanciulla. Così, il cacciatore la scoprì e, riconoscendola come la sua promessa sposa, decise di strapparla alla vita consacrata che aveva scelto. Il principe la condusse con forza al castello, preparandosi a celebrare delle nozze forzate. Tuttavia, quando mise Ardenza di fronte a una scelta definitiva, “O me o la morte”, la giovane non esitò e scelse la morte. Il principe, furioso per la sua decisione, ordinò ai suoi fabbri di forgiare una veste di bronzo nella quale farla rinchiudere. Dentro quella pesante prigione di metallo, Ardenza cantò per tre ore: dapprima con gioia, poi con dolore, e infine con un canto di agonia, fino alla sua morte.

La storia non finisce con la sua tragica morte, ma si proietta nel futuro con un’aura di mistero. Si narra infatti che, dopo molti secoli, quando fu necessario fondere le campane per la chiesa di Viggianello, mancasse il bronzo necessario. Cercando tra i tesori nascosti nei sotterranei del castello, gli abitanti trovarono la veste di bronzo che aveva imprigionato Ardenza. Da quel metallo fu forgiata una nuova campana e, quando questa fu suonata per la prima volta, il suono che ne scaturì non fu un semplice rintocco, ma il canto della Vergine Ardenza: un lamento intriso della sua gioia, del suo dolore e della sua agonia. Si dice che, ogni anno, nella notte dell’anniversario della sua morte, le campane si muovano da sole, risvegliate dal respiro degli angeli, per cantare la sua storia. Tuttavia, solo coloro che sono puri di cuore, proprio come Ardenza, possono udire il loro canto incantato.

LA SERPE VERDE

Da millenni, nei sotterranei oscuri del castello dei principi di Bisignano, si nasconde una creatura antica: una serpe verde, immutabile nel tempo. La sua esistenza è avvolta nel mistero, come se fosse stata condannata da forze superiori a un eterno ciclo di immobilità. La serpe giace tra le sue uova, che nel corso degli anni si sono trasformate in pietra, segni tangibili di un destino stagnante. Le uova, che un tempo avrebbero dovuto schiudersi in vita, restano invece prigioniere della loro natura minerale, come una promessa di rinascita che non si avvererà mai. Questa visione fantastica della serpe verde diviene una metafora vivente del destino del paesino di Viggianello, un luogo che sembra sospeso fuori dal tempo, fermo nelle sue tradizioni e radicato nel suo patriarcalismo. Il paese, come la serpe, non muore mai davvero, ma nemmeno evolve, incapace di adattarsi alla modernità e al progresso. È un luogo che resiste al cambiamento, dove il passato continua a vivere attraverso le sue pietre, le sue storie, e la sua gente. Eppure, in questo stato di perenne quiete, c’è una forma di sacralità e bellezza. Il paese è un rifugio di pace, un luogo in cui i morti riposano senza turbamento e i vivi lavorano con devozione e virtù. Anche in questa immobilità, c’è una sorta di benedizione: un legame con la terra, con le generazioni passate, che conserva un equilibrio che la modernità, con la sua frenesia, difficilmente potrebbe mantenere.

In questo eterno ciclo, Viggianello rimane uno scrigno di memoria e tradizione, un luogo fuori dal tempo dove persino la natura stessa, attraverso la serpe verde e le sue uova di pietra, sembra vegliare su un segreto che solo i suoi abitanti possono comprendere.

LA GROTTA DI GESU' E MARIA

La leggenda della Grotta di Gesù e Maria a Viggianello affonda le sue radici nel mistero e nella superstizione, tramandata di generazione in generazione. Si narra che questa grotta, nascosta tra le pieghe della montagna, custodisca un favoloso tesoro: un’immensa quantità di oro e gioielli di inestimabile valore. Tuttavia, non è un semplice forziere che attende di essere scoperto, bensì un tesoro protetto da forze oscure e insidie che puniscono chi tenta di impossessarsene senza la dovuta cautela e purezza d’animo. Ogni anno, nella magica notte di Natale, si crede che al primo rintocco delle campane della chiesa, la pesante pietra che sigilla l’ingresso della grotta si apra miracolosamente. Questo momento è un’opportunità rara: per pochi minuti, chiunque abbia il coraggio di entrare può accedere al tesoro nascosto nelle profondità della caverna. Tuttavia, la grotta non offre ricchezze senza esigere un terribile prezzo da chi si lascia guidare dall’avidità.

La leggenda avverte infatti che chi entra nella grotta deve essere cauto e non troppo avido. Chi si china tre volte per raccogliere l’oro rischia di incorrere nella maledizione. Se il suono delle campane cessa prima che abbia terminato, la pietra che protegge l’ingresso della grotta si richiude con violenza, intrappolando il malcapitato al suo interno. Ma la sorte di chi rimane imprigionato nella grotta è ancora più terribile: secondo il racconto popolare, i diavoli si avventano sul corpo del malcapitato, portandolo via nelle viscere della terra. Nonostante il pericolo, la promessa di ricchezza continua ad attirare coloro che sono disposti a rischiare. La leggenda narra anche di un uomo astuto che riuscì a ingannare il destino. Sapendo che il tempo era il suo più grande nemico, escogitò un piano brillante: corrompendo il sagrestano del paese, lo convinse a far suonare le campane per tutta la notte. In questo modo, poté raccogliere una quantità infinita d’oro senza timore che le campane cessassero di suonare. Quando le prime luci dell’alba si fecero strada, l’uomo uscì dalla grotta con una fortuna incalcolabile, diventando il più ricco di tutta la regione.

Questa storia, come molte altre leggende locali, ha un profondo significato morale. Essa insegna che la ricchezza può essere tentatrice, ma che l’avidità e l’inganno non sono senza conseguenze. Anche l’uomo che riuscì a ingannare le campane, secondo alcune versioni della leggenda, non trovò mai vera felicità, nonostante le sue ricchezze. Si dice che la maledizione della grotta lo abbia perseguitato per il resto della sua vita, manifestandosi attraverso sogni tormentati e l’inquietudine del suo spirito. In questo intreccio di fede e superstizione, la grotta di Gesù e Maria resta un simbolo del conflitto tra desiderio e morale, tra sacro e profano, ricordando a tutti che non si può sfuggire alle leggi della natura e della spiritualità senza pagare un prezzo.